Una schidionata di messaggi contradditori e di retorica, spalmati sulla recitazione manierata e sul viso botulinatissimo di Meryl Streep. Questo, in sintesi, l’iperpubblicizzato film diretto dall’esordiente David Frankel (transfuga da “Sex and the City”, e si vede. Purtroppo) e tratto dal bestsellerone da viaggio di Lauren Weisberger.
Il guaio è che la sceneggiatura rimane per tutti i 110 minuti in bilico tra Eva contro Eva e Cenerentola, con vaghe reminiscenze di Capra (Frank), senza riuscire a scegliere tra l’etica ante e quella post Sessantotto, vagando, smarrita e spaesata, fra gli Anni Quaranta e il Terzo Millennio.
La storia è tanto nota quanto inconsistente.
Una splendida fanciulla approdata nella Grande mela dall’Ohio, con velleità giornalistiche (Anne Hathaway: il suo sorriso e la sua frangetta post Hepburn valgono, comunque, il prezzo del biglietto), finisce nell’antro-redazione di un giornale di moda a tiratura planetaria, diretto da un’arpia in tacchi a spillo e baschetto platino, con il girovita un po’ troppo largo per buttarla giù tanto dura sulla taglia pretesa per le proprie assistenti (massimo 40). Meryl Streep, appunto. Che i beninformati dicono sia la caricatura (o il ritratto?) della temutissima boss di Vogue America, Anna Wintour.
Inizialmente optionalizzata di golfino infeltrito, gonna improbabile, amici alternativi e fidanzato quasi chef, ma anche con una valigia di sogni, la piccola si presenta – sbeffeggiata – per il ruolo di vice dell’assistente di super-Amanda (questo il nome del personaggio Streep).
Ed entra a capofitto, come Alice, in un mondo iperbolico dove nessuno cammina né parla normalmente, ma tutti corrono in perenne affanno, il tasso di nevrosi è stellare e il nostro Gabbana ci fa la figura del cafone isterico, perché le sbatte il telefono in faccia quando lei, che di moda non s’è mai occupata, osa chiedere “Gabbana con una o due b?”.
Retorica di serie B, appunto. Il mondo della moda è davvero tutto sopra le righe, vagamente ossessivo ed esasperato, e i valori nei backstages delle sfilate o nelle redazioni di moda non sono quelli più…consueti. E’ anche vero, però, che si tratta di un business miliardario, cui debbono il proprio posto di lavoro milioni di persone. Buttarla tutta in vacca, come se fosse un’unica, eterna, vana, effimera, stupidissima pochade è davvero troppo facile.
Presa a benvolere dall’adorabile (chi non vorrebbe uno zio così alzi la mano) capo redattore Stanley Tucci, nel ruolo di fata Smemorina contemporanea, dal quale ascoltiamo il solo discorso sensato di tutto il film: “Hai voluto questo lavoro, non lamentarti, fallo!” presto la piccola provinciale si trasforma in un fulgido esemplare newyorkese, tutto Chanel e dedizione al dovere.
Smette di piangersi addosso ad ogni cafonata del boss (Streep più che perfida ci pare molto, molto ineducata. Per il resto ottiene risultati tali che, se fosse uomo, le varrebbero l’onorificenza di Cavaliere del Lavoro ad occhi chiusi) e ci da dentro.
Il secondo scivolone ipocrita/melassoso assolutamente intollerabile e follemente anacronistico arriva quando la ragazza è invitata da un galante giornalista, molto ben introdotto, a fermarsi ad un party, dove lui le promette di farle incontrare i direttori delle più importanti testate americane.
Che cosa avrebbe dovuto fare, secondo voi, una ragazza con un briciolo di buon senso? Cavalcare la tigre? Afferrare l’occasione ringraziando il proprio angelo custode? Certo che sì.
Andy, invece, fugge via perché è il compleanno del suo ragazzo, che, tra l’altro, si comporta da veteromaschilista malmostoso e manipolatore, e le tiene il muso perché lavora troppo e lo trascura (uno così sarebbe da bruciare, ma lo sceneggiatore è in fase regressiva Anni Quaranta, e lo spaccia per buono).
La terza piroetta da fucilazione arriva quando Amanda si fa trovare in lacrime – lei che non ha un capello fuori riga né un’unghia scheggiata nemmeno durante uno tsunami – alla notizia che il marito (non il primo, in verità) ha deciso di divorziare. E parte con il pistolotto: “Ancora un fallimento…etc. etc.”. Una tosta come lei? E, allora, qual è il messaggio? Non si capisce.
Perché Andy coglie quasi subito l’occasione per fare un’autocoscienza sprint (dura circa trenta secondi) e decidere che non sarà mai il clone di Amanda. Ma, soprattutto perché non lo sanno né il regista né lo sceneggiatore.
Abbandonato il boss alla turba di fotografi che le fanno ressa intorno, mentre la carrozza si ritrasforma in zucca, scaraventa il cellulare-cordone-ombelicale nella fontana (complimenti per la sottigliezza della simbologia), e si riaccatta il fidanzato malmostoso, dal quale era momentaneamente separata. Per poi trovare un posto come giornalista “seria” indovinate grazie a chi? Ma a quel “mostro “ di Amanda, che deve, assolutamente, per la gioia della famigerata casalinga di Rovigo, dimostrare di avere anche un cuore (oltre ad un 740 da infarto, presumibilmente)!
Giudizio: confuso&diseducativo (le brave ragazze non devono puntare troppo in alto, sennò perdono gli amici, i fidanzati, i mariti…meglio lasciar fare agli uomini).
Cinema